di Sara Adami
Violenza. E’ una di quelle parole onomatopeiche che quando la pronunci senti il rispetto che lascia il posto all’inquietudine, il dolore tangibile. Bullismo. In fondo i bulli sono sempre stati quelli che se la tirano ma anche un po’ ridicoli, e così bullismo, come parola, fa meno male di violenza. Ma uccide altrettanto.
Questo tipo di abuso avviene in due modi: nel silenzio di un banco di scuola, dove non vedere è meglio che sapere, e alla luce di una rete globale, dove l’ingiustizia diventa digitale. Si chiama cyberbullismo, è figlio del nostro tempo ma noi ne rinneghiamo la paternità.
Amanda aveva 15 anni, ha girato un video che parlava di solitudine e cattiverie ricevute e lo ha postato su youtube, prima di suicidarsi. Andrea era un suo coetaneo, romano, perseguitato perchè amava quei jeans rosso stinto, perchè amava curarsi di più, perchè amava. Si è tolto la vita perchè gli insulti avevano varcato il confine della scuola e avevano raggiunto la rete, perchè, come le altre vittime, riceveva mail, telefonate, messaggi, molestie ripetute a causa della sua differenza. Il cyberbullismo è quella piaga che permette a un ragazzo di maltrattare un suo coetaneo avvalendosi degli strumenti tecnologici a sua disposizione, dove non solo il Codice Civile e Penale viene violato, ma anche il codice umano.
Il Ministero dell’Istruzione (grazie allo studio dell’Osservatorio Open Eyes) quantifica le percentuali allarmanti di questo male: il 26% dei nostri figli ne è vittima, ma il 23% ne è carnefice. La scala di violenza spesso comincia da piccoli gesti, il furto dell’identità online e i profili falsi, poi passa per l’esclusione dal gruppo, il danneggiamento della reputazione, fino arrivare ai messaggi volgari, l’aggressività degli animali più feroci. I bersagli più facili sono le diversità, il bullismo omofobico, primo tra tutti, e anche i più giovani (come determinato dall’educatore Bill Belsey, il fenomeno si chiama cyberbullying – cyberbullismo quando avviene tra minorenni, e cyberharassment – cybermolestia tra adulti, o adulto e minorenne).
Le famiglie sono responsabili? Sempre. Le famiglie sono colpevoli? Non sempre. E’ facile parlare di cyberbullismo e immaginare un figlio abbandonato, un contesto di sbando, dei familiari assenti. Però spesso queste storie arrivano dal ragazzo della porta accanto, dalla ragazza insospettabile, adolescenti con relazioni di base insoddisfacenti e un’immaturità evidente, che li spinge alla devianza, che trasforma rabbia e insoddisfazione in aggressività da capobranco. Il gruppo come spalla, la cyberviolenza come arma, il terrore come risultato.
Carolina di Novara, la pesantezza dei 14 anni portata allo stremo con commenti del popolo della rete, Twitter come luogo incriminato, anche nella storia di Flora, 17 anni: l’hashtag #letroiedellamiascuola è addirittura diventato un Trending Topic, uno dei più twittati del giorno, alimentando una discussione ridicola sull’abbigliamento delle ragazze a scuola, sul loro trucco e le loro relazioni. Il semplice sfottò tipico dei ragazzini trova l’habitat digitale e se ne appropria, gli attacchi diventano mirati e poi feriscono, a volte in modo definitivo.
Twitter, la rete, il web, sono giganteschi strumenti di condivisione, discussione e confronto. Quando questo strumento è più grande della persona a cui viene affidato si può cadere in fragili etichette negative. Sta al branco essere più forte dei pregiudizi, sfatare la legge del più debole, combattere l’anonimato del cyberbullismo con l’arma dell’intelligenza.
Source Image : TriesteAllNews
Articolo originale al link: Lab13